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Neumond
In Alfabeta2
2012
By Stefano Nardelli
on Neumond


Ci sono molto modi di raccontare un autore. Un esempio è il piccolo ma agguerrito festival intitolato a Mozart che si svolge ogni due estati fra il Nationaltheater di Mannheim, che lo organizza in coda alla sua lunga stagione, e la settecentesca reggia di Schwetzingen. Di mezzi molto parsimoniosi, la Mannheimer Mozartsommer non ha proprio nulla della magniloquente spettacolarità tipica dei festival estivi, ma gioca piuttosto sul piano delle idee e della sorpresa. Di Mozart, in fondo, c’è poco (quest’anno la ripresa di La clemenza di Tito, un bello spettacolo di due anni fa firmato da Günter Krämer) ma «attorno a Mozart» c’è moltissimo, come la videoinstallazione di Peter Missotten, un ponte immaginario fra i due poli del festival (la grotta sotto il tempio di Apollo nel parco di Schwetzingen e il foyer del Nationaltheater), che si propone come personale riflessione sulla perdita a partire dall’Apollo et Hyacinthus del compositore dodicenne.

E attorno alla sua favola più bella, Il flauto magico, c’erano due racconti molto diversi e molto contemporanei. Il primo arrivava per la prima volta in Germania: era quello dell’Orchestra di Piazza Vittorio, che, come un racconto della tradizione orale, somiglia alla schiera di straordinari musicisti da ogni angolo del pianeta che ne raccontano un frammento come fosse un passaggio delle loro storie personali.

Il secondo era la novità del festival: Neumond (Novilunio), un’opera da camera per un pubblico giovane che è «un’esplorazione drammaturgia dell’adolescenza». E per parlare al suo pubblico, a Mannheim hanno affidato il testo a un giovane ma consacrato talento della drammaturgia il trentaseienne Kristo Šagor, in attività dal 1999 con già una ventina di lavori alle spalle. Muriel è un’adolescente come tante. Il padre se n’è andato a farsi un’altra famiglia. Con la madre Magdalind, che non mai superato l’abbandono, il rapporto è tormentato e conflittuale. E Muriel il suo amore non sa a chi darlo: a Frederik, il concreto, che sogna di andarsene (e prima o poi lo farà), o a Jasper, il sognatore, che crede a ogni parola gli viene detta? Ossia, il solito dilemma riveduto e normalizzato fra φύσις e λόγος. In una alternanza incalzante di giorni e notti di luna calante, quando Muriel, sempre più febbricitante, si abbandona a lunghi monologhi e si tormenta di domande alla ricerca del suo equilibrio fra tensioni opposte – la madre e il padre, assente – che la simbolica congiunzione di sole e luna del novilunio non scioglie ma, al contrario, acuisce perché più incerti sono i confini e più confuse sono le identità nel cono d’ombra della luna nera.

Per la compositrice Lucia Ronchetti, la sfida era molteplice: esprimere un linguaggio musicale intelligibile a un pubblico giovane, mettere in musica un testo quasi indeclinabile al linguaggio musicale, e rendere esplicita la trama dei rimandi all’opera mozartiana. Ronchetti non è personalità musicale incline alle soluzioni facili e evita la facile parodia di un «flautino magico» ad usum Delphini. E, sebbene anche qui il buio illumini le persone più di quanto non faccia la luce del giorno, non rifà una «Lezione di tenebre» per giovani, come quella, leggiadra e immaginifica, del suo racconto musicale dell’amore «al buio» fra Giasone e Medea secondo Cicognini. Compone invece un contrappunto dialettico al testo, fatto di un abile e complesso impasto di suggestioni coloristiche affidate ai soli degli otto strumenti e alle voci, trattate, secondo un procedimento a lei consueto, con estrema libertà e come la sua elaborazione drammaturgia impone. E capita che il suo trattamento musicale «smaterializzi» alcune presenze molto fisiche, come quella della madre Magdelind, che si esprime con i vocalizzi stellari della Regina della notte (cui presta la voce e il fisico la fascinosa Antje Bitterlich) e il dubbio viene che anche lei non sia poi così diversa dal padre solo immaginato. Come spesso nei suoi lavori teatrali, Ronchetti gioca di riflesso con i temi della partitura mozartiana attraverso frequenti rimandi al Flauto magico, talora evidenti (i tre geni, che scortano Muriel nelle sue escursioni mentali notturne) talora più sottili e al limite del percettibile, ma senza trascurare un segno personale attraverso le melopee notturne del clarinetto, i mormorii delle percussioni e gli interventi di raccordo dei trii di ottoni e di archi, cui toccano anche i rimandi mozartiani.

L’operina prende corpo nella «non scena» dello Studio del Nationaltheater, allestito da Alexander Lintl come un playground circoscritto da una rete metallica con una grande luna incorniciata in un manifesto montato su un girello per bimbi. Il regista Christian Pade, libero da pre-concetti (che sono spesso la regola da queste parti) ascolta la suggestioni del lavoro e guida con mano leggera il giovane gruppo di interpreti, tutti adatti nei ruoli. Sotto il cesto da basket, Joseph Trafton dirige gli otto validi strumentisti dell’Orchestra del Nationaltheater con sensibilità attraverso la delicata partitura. Il «suo» pubblico segue attento, simpatizza con i turbamenti della giovane Muriel, sorride alle reminiscenze mozartiane e, alla fine, risponde festoso. Mozart è più vivo che mai.

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