Texts
11-2011
Interview with Guido Barbieri (IT)
Lucia Ronchetti è una delle voci più originali della scena musicale contemporanea. Si è formata all’École Pratique des Hautes Études della Sorbonne e alla Columbia University e possiede da sempre, insieme alla capacità di inserire il gesto compositivo in una rete di sofisticati riferimenti culturali, una prepotente vocazione teatrale. Grazie a queste qualità, profondamente apprezzate in tutta Europa, è stata la prima compositrice italiana ad ottenere il prestigioso riconoscimento del Berliner Künstler-Programm des DAAD, attribuito in precedenza a ventitre compositori italiani tra i quali Luigi Dallapiccola, Luciano Berio e Luigi Nono.


G.B. - Cara Lucia, inizio con un dubbio, forse un pò contorto (come tutti i dubbi..), ma sincero. Tempo fa, raccogliendo per la radio le voci degli scrittori "stranieri" che scrivono in italiano una scrittrice "felsineo-etiope" mi disse: "Ma perchè continuate a metterci nella casellina della "letteratura migrante"? Non potremmo pretendere di essere considerati scrittori e basta?". Ecco, pur tenendo conto delle infinite differenze tra genere e lingua non potresti anche tu dirmi, all'inizio di questa conversazione: "Ma perchè mi devi mettere per forza nello scaffale delle "compositrici donne"? Non avrei il diritto di essere considerata una compositrice e basta? Non basta la desinenza, in italiano, a differenziare il "gender"? "

L.R.-Lo scaffale delle "compositrici donne" in Italia è vuoto o quasi: sarebbe dunque paradossale per me non volerlo occupare… In Europa, invece, dove sono molto attiva come compositore, assai raramente sento il mio lavoro oggetto di giudizi basati su una categorizzazione dovuta alla identità di genere e ne sono felice. Il lavoro del compositore e i meccanismi di produzione sono complessi ed è difficile per tutti emergere, donne o uomini. Ma in Italia, dove l'insensibilità e l'inadeguatezza delle istituzioni rispetto alla creazione musicale contemporanea sono comunque estreme, sospetto fortemente che esistano davvero preclusioni e discriminazioni nei confronti delle donne compositrici: rispetto al numero elevato di studentesse nelle classi di composizione, ad esempio, sono pochissime le compositrici attive, e tutte sono rigorosamente escluse da qualsiasi carica organizzativa di rilievo. Io stessa, che ho avuto commissioni da enti importanti come la Bayerische Staatsoper di Monaco o il Konzerthaus di Berlino, nonchè tre Commandes de l'Etat dal Ministero della cultura francese, non ricordo una sola commissione proveniente da un'istituzione italiana. Per questo penso che in Italia sia invece importante e necessario prestare attenzione a questo scaffale vuoto delle "donne compositrici" e riflettere su questa ed altre anomalie.

G.B. - Perdonami se rimango ancora per qualche istante su questa faccenda un pò spinosa dello "specifico femminile", ma mi preme mettere in chiaro il tuo pensiero. Non c'è dubbio, credo, nonostante i dubbi nutriti dai filosofi della mente, che la lingua condizioni in qualche modo le strutture del pensiero. Se tu fossi inglese, ad esempio, saresti "an italian composer" e basta: non c'è il rischio, insomma, ad insistere sulla chimera di una presunta "scrittura femminile", di evocare il fantasma delle "quote rosa" in musica? Scusa, è un po’ provocatorio, e forse un pò "maschile", ma…

L.R.-Ovviamente non è una questione di "quote rosa". Ogni compositore è un intellettuale libero di esprimere o reprimere nel proprio lavoro il se stesso biografico, la propria specificità di genere, il vissuto della propria persona, la propria presenza fisica. Il linguaggio musicale in particolare, non essendo "translitterabile" nella lingua parlata, e possedendo un livello estremo di formalizzazione (che i profani potrebbero chiamare astrazione), ha elaborato delle prassi analitiche e storiografiche che prescindono fortemente dal riferimento biografico quanto dalle dichiarazioni ermeneutiche o estetiche del compositore stesso. Ma questa libertà della scrittura musicale e della sua interpretazione, e la sua possibilità di ordire una comunicazione linguistica extraterritoriale ed extra-corporale, è libertà solo quando dall'altra parte, dalla parte dell'ascoltatore, non ci sono prevenzioni. E ancora una volta mi sento di dire che in Italia non è facile presentarsi e presentare i propri progetti.

G.B. - Sono passati i tempi, per fortuna, in cui Schoenberg diceva a Karl Kraus che trovava perfettamente naturale il fatto che una donna non potesse essere compositrice. Circola però da qualche tempo una teoria neurobiologica piuttosto bizzarra, secondo me, per la quale la scrittura musicale sarebbe fondamentalmente "androgina" . Cioè, detta un pò brutalmente: i compositori sono compositori perchè hanno una personalità femminile particolarmente sviluppata e le compositrici sarebbero tali perchè invece possiedono una forte componente maschile. Solo "fantaneurobiologia" secondo te?

L.R.-Credo fortemente in una compresenza di pulsioni e tendenze contrastanti in uomini e donne e nella scelta - e nel diritto - di ognuno di noi di amplificare, esporre o nascondere la propria sensibilità sessuale o attitudinale. Penso che uomini e donne possano esplorare i propri confini fisici e mentali, senza per questo essere poi definiti meno uomini o meno donne o meno dignitosi. Lo trovo però un concetto ridicolo se applicato specificamente al campo musicale. L'esperienza compositiva, come quella performativa, necessita talento e disciplina, controllo del materiale e coscienza storica, come ogni altra attività intellettuale. Le interpretazioni estesiche, a posteriori dall'ascolto, possono talvolta generare delle impressioni profonde ed inesplicabili che inevitabilmente portano al tentativo di spiegazioni e tentativi teoretici non scientifici o comunque non comprovabili. La neurobiologia applicata alla creazione musicale è in una fase primordiale e a fatica riusciamo oggi a vedere, con una scansione fMRI, quali aree del cervello sono impegnate nella riproduzione e nell’ascolto musicale. Ci vorrà ancora tempo e studio per analizzare l’androginia della musica in termini neurofisiologici!

G.B. - Dopo secoli di assenza quasi totale delle donne dalla scena compositiva, dovuta semplicemente alla gabbia sociale in cui è sempre stata rinchiusa l'altra metà del cielo, non si può negare che nel secondo Novecento, e in particolare negli ultimi trent'anni, la "scrittura femminile" sia presente con forza nell’universo della musica "colta": Saariaho, Gubaidulina, Ustvolskaja, Wolfe, Zadeh, Walshe sono i primi nomi che vengono in mente. Nel suo complesso però l'universo della musica contemporanea rimane fortemente connotato in senso maschile. È perché secondo te le "gabbie sociali" in fondo non sono ancora state del tutto abbattute?

L.R.-Nella cultura occidentale indubbiamente queste gabbie sociali sono state aperte e molte donne hano avuto la possibilità di formarsi e lavorare al pari degli uomini. Ma non bisogna dimenticare che tutto ciò è avvenuto molto recentemente e molto in fretta. Helga de La Motte, una delle più rinomate musicologhe tedesche, mi raccontava tempo fa che quando decise di iscriversi alla Facoltà di Musicologia l'Università richiese ufficialmente il permesso del marito a lasciarle proseguire gli studi. E parliamo degli anni ’60. Il diritto di voto alle donne in Italia è stato riconosciuto solo nel 1946. Per quanto veloce sia stato il processo di emancipazione femminile, la comparsa di compositrici attive sulla scena europea è troppo recente e di conseguenza tutte o quasi hanno come riferimento insegnanti e compositori uomini. Penso che siano necessarie varie generazioni di compositrici donne attive e produttive, prima di poter dare un giudizio sensato. Ma se penso alla progettualità di Olga Neuwirth, alla coerenza e vastità del catalogo di Kaija Saariaho, alla raffinatezza della scrittura di Rebecca Saunders, sono molto ottimista sulla possibilità che la presenza femminile, sulla scena compositiva europea, si possa rafforzare.

G.B. - All'interno dell'"altro universo", quello della musica pop, rock, jazz, che l'espressione "dominanza maschile" è totalmente priva di senso: i nomi di Joan Baez, Patti Smith, Joni Mitchell, Carla Bley e tante altre (e parlo delle "compositrici", non delle semplici interpreti) dimostrano che le "pari opportunità" sono un fatto concreto, non una petizione ideologica. Pensi che la ragione di questa disparità tra i due universi si annidi nella natura in fondo ancora elitaria della musica colta e quindi nella sua difficoltà a sradicarsi dalle convenzioni sociali più rigide e tradizionali? Oppure nel fatto, ad esempio, che nella popular music le compositrici siano anche performers?

L.R.-La musica "colta" è non solo elitaria ma per statuto speculativa e complessa. Il sapere compositivo non si riceve in regalo, lo si guadagna duramente, scavando giorno per giorno la miniera della storia della scrittura musicale. E questo percorso può durare decenni. Non tutti possono permetterselo e sicuramente meno le donne degli uomini. La generazione di performers che citi è costituita da artiste di grande carisma comunicativo, che hanno scelto di lavorare con materiali semplici e accattivanti, che in qualche modo possedevano già sotto forma di vocazione e talento.

G.B. - Forse i lettori di Alfabeta non lo sanno, ma tu, compositrice italiana, sei in realtà una "compositrice europea": nel senso che la stragrande maggioranza delle commissioni e delle esecuzioni della tua musica vengono dalla Germania, dalla Francia, dall’Olanda, dall’Inghilterra. Pochissimo dall'Italia. Non so se il dato debba inscritto nel capitolo giornalistico della “fuga di cervelli”, oppure, appunto, nella cronica diffidenza verso l’universo della scrittura femminile. Hai una spiegazione più razionale o più irrazionale da dare?

L.R.-Penso che obiettivamente in Italia sia impossibile avere la giusta formazione e le necessarie occasioni esecutive per formarsi come compositore a livello europeo. Purtoppo è una nazione che, pur avendo uno dei più brillanti passati musicali del mondo, non ha creduto nel linguaggio musicale quale parte necessaria dell’apprendimento culturale di base e non crede nella creazione musicale contemporanea. Parlerei piuttosto di "fuga di cervelli", in questo caso. I tanti compositori italiani che risiedono in Europa e sono eseguiti e venerati dalle istituzioni straniere, sono non solo degli incompresi, ma addirittura degli sconosciuti in Italia. Ricordo di aver assistito nel novembre del 2009 ad un concerto viennese del Klangforum Wien dedicato a musiche contemporanee dove erano presenti nel pubblico il Presidente Heinz Fischer e la moglie perché avevano personalmente pagato la commissione di un nuovo lavoro di Jorge Sanchez-Chiong. Sono persone consapevoli delle proprie responsabilità e del fatto che saranno ricordati anche per il contributo dato alla cultura. Una nazione dimostra la propria grandezza non solo dal numero di canali televisivi e imprese deterritorializzate, ma anche dalla capacità di investire in istituzioni pedagogiche di alto profilo che prendano "in cura" i giovani di talento e li sostengano nel duro e a volte lungo ed estenuante percorso formativo. Istituzioni che siano in grado di non discriminare tra uomini e donne e di dare alle giovani menti più promettenti la possibilità di formarsi.

G.B. - Al di là del tuo caso personale sembra di assistere, in Italia, ad una progressiva, lenta dispersione delle menti femminili più brillanti dell'ultimo quarto di secolo: da tempo le opere ultime e penultime di compositrici come Sonia Bo, Ada Gentile, di Roberta Vacca, Cristina De Amicis, Carla Magnan, Gabriella Zen, Cristina Landuzzi stentano ad emergere. Forse soltanto il tuo nome, nonostante il parziale esilio, e quello di Silvia Colasanti, possiedono una discreta presenza nella programmazione italiana. È così vistosa, sconfortante, preoccupante la differenza con l’Europa?

L.R.-Si, quello che dici è tragicamente vero. Ho assistito da lontano, ma non per questo senza un profondo sconcerto, al cross-fade tra la crescente presenza e importanza delle compositrici europee, sempre più sostenute e riconosciute dai loro paesi di origine, e la progressiva scomparsa dalla scena musicale italiana delle poche compositrici donne attive. E questo è un dato allarmante e dimostra come anche nelle poche e sparute "nicchie" riservate alla produzione musicale contemporanea, la cultura organizzativa italiana sia anomala, arretrata e retrograda.
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