Texts
2012
Chiedi alle tenebre: un prologo all’opera
“Che soave armonia/fareste, o cari baci, o dolci detti,/se foste unitamente/d’ambe due le dolcezze ambo capaci,/baciando, i detti, e ragionando, i baci”. Così canta un sapientissimo testo poetico di Gio- vanni Battista Guarini che nel 1619 Claudio Monteverdi inserisce, intonandolo a voce sola, nel Settimo Libro dei Madrigali. I versi di Guarini, nella canonica alternanza dei settenari e degli endecasillabi, di- segnano consapevolmente il profilo di una ideale utopia amorosa. Una perfetta concordanza di affetti in cui i “baci” e i “detti”, ossia i sensi e la ragione, non solo non si “ancidono tra lor”, ma al contrario, trasgredendo le leggi fisiche del corpo, attingono ad un ordine superiore in cui logos e physis, parola e natura, sono capaci di donare un unico e indistinguibile piacere. Esattamente trent’anni più tardi, nel 1649, un ingegnoso libretto di Giacinto Andrea Cicognini, Giasone, messo in musica da Francesco Cavalli, sembra disegnare una cornice poetica e drammatica in cui il “sogno degli affetti” immaginato da Guarini si traduce, o pretende di tradursi, in una concreta realtà teatrale. Il dramma, che narra il mito di Giasone nella versione tramandata da Apollonio Rodio nelle Argonautiche, inserisce del tutto arbi- trariamente nella relazione amorosa tra Giasone e Medea un imprevedibile manque, un limite, un’assenza che si trasforma in un formidabile motore narrativo. I due amanti consumano infatti la loro passione nella più totale, artificiosa e “crudele” della mancanze: l’assenza della luce. È nel buio che la maga e il comandante degli Argonauti si amano e si scambiano le dolcezze dei baci e le dolcezze dei detti. È l’astrattezza dell’oscurità, una condizione irreale in cui è impossibile calcolare i limiti dello spazio e del tempo, a rendere possibile la perfetta simultaneità dei sensi e della ragione. Il buio, l’universo degli inganni, delle trasformazioni, degli scambi di identità, diventa dunque nel dramma di Cicognini e Cavalli, una condizione utopica in cui l’assenza dell’elemento vitale della luce si traduce in una fertilissima
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presenza: l’invenzione cioè di una lingua nuova, una lingua capace di parlare contemporaneamente il linguaggio del corpo e il linguaggio della mente.
È nella vertigine lasciata aperta da questo scarto, nella fessura creata dalla sovrapposizione imperfetta di questi due linguaggi che si inserisce la ratio compositiva di Lucia Ronchetti. La sua “visione” del Gia- sone originario sembra disegnare, forse inconsapevolmente, una proporzione assai simile a quella sta- bilita da Guarini tra il diletto dei baci e il piacere dei detti. Per l’autrice di queste nuove Lezioni di tenebra il dramma di Cicognini e Cavalli incarna infatti la dimensione del piacere intellettuale, il godi- mento astratto rappresentato dal dialogo intimo, privilegiato, esclusivo con un capolavoro poetico e teatrale collocato nella luce del passato. L’opera nuova, ossia la coniugazione del Giasone al tempo presente, non appartiene, invece, al dominio retorico del logos, bensì all’universo sensibile della physis, ossia alla dimensione concreta, immediata, sensuale del suono attuale. Ed ecco che si rivelano i termini, quasi matematici, di una sorprendete “divina proporzione”: il Giasone di Francesco Cavalli e le Lezioni di tenebra di Lucia Ronchetti si rivelano capaci, proprio in ragione della loro irriducibile diversità, di unire in una soavissima armonia le due dolcezze irriducibili della lontananza storica e della sensibilità per il presente.
È una relazione quasi sconosciuta nell’universo sempre più in espansione governato dai prefissi “ri” e “re”: nelle innumerevoli pratiche più o meno postmoderne di ri-scrittura, re-visione, ri-elaborazione, ri-edizione, ecc... quasi sempre il testo di partenza e il testo di arrivo si “ancidono tra lor” con grande disinvoltura. Modello e variante, fonte ed estuario, testo originale e testo sussidiario si comportano esattamente, di solito, come i detti e i baci di Guarini: impossibile, quasi fisiologicamente, sovrapporre esattamente i due lembi e cucirli insieme in una organica esperienza di ascolto. Il caso delle Lezioni di tenebra smentisce, nella prassi della scrittura, questa pretesa irriducibilità: i profili vocali, le nervature
melodiche, le figure ritmiche, persino gli agglomerati armonici della partitura originale sembrano ri- manere miracolosamente intatti, quasi intoccati, nitidissimi nella loro identità storica e stilistica. Ma ad essi si sovrappongono costantemente, in perfetta simultaneità, le invenzioni dell’opera nuova: una trama densissima di figurazioni strumentali, varianti tematiche, metamorfosi timbriche, trasfigurazioni vocali che si imprimono nell’ordito originale costituendo una inestricabile, costante, “invenzione a due voci”.
Con quali mezzi linguistici Lucia Ronchetti ottiene questa compresenza non conflittuale di nuovo e antico, questo processo di sintesi chimica tra la sostanza sonora dell’opera di Cavalli e gli elementi molecolari di Lezioni di tenebra? La perfetta ibridazione dei detti e dei baci non sembra il risultato di una strategia compositiva puramente concettuale: la sensazione è che il rapporto tra i numeri originali del dramma e i quadri dell’opera nuova sia governato dalla logica “vegetale” della gemmazione spon- tanea o meglio ancora da qualche cosa di simile al processo di cristallizzazione che porta una sostanza liquida a solidificarsi in strutture cristalline sempre imprevedibili e di forma perennemente mutevole. Un esempio particolarmente efficace di questo processo può essere dato dal trattamento delle tipologie vocali. Ronchetti mantiene dichiaratamente in vita uno dei principi cardine della drammaturgia musicale seicentesca, ossia la corrispondenza tra il carattere drammatico di ogni singolo personaggio e il for- mulario timbrico, lessicale, recitativo che lo caratterizza. Un modo ingegnoso per assicurare varietà al dramma e riconoscibilità ai caratteri pur senza possedere, come accade nell’opera sette e ottocentesca, una grande ricchezza di registri vocali. In Lezioni di tenebra, dunque, Giasone possiede il timbro chiaro, ambiguo, mutevole, del controtenore, Medea è un soprano acuto, con i centri particolarmente timbrati e con una naturale propensione per il canto di forza, Demo si inscrive nella tipologia della voce di mezzo carattere, con una forte inclinazione al canto “comico”, Egeo, al contrario maschera la voce di soprano in un canto a mezza voce, lento, affaticato, sofferente. Oreste e Isifile, infine, rappresentano
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due varianti diverse del registro controtenorile: l’una incline al canto eroico, l’altra sensibile allo stil patetico. Ma queste simmetrie, queste rigide corrispondenze biunivoche vengono spesso infrante e ca- povolte dal ricorso alla tecnica delle “parti condivise”, tipica del madrigale rappresentativo cinquecen- tesco, in cui gli interpreti intonano polifonicamente le parti monodiche. Oppure, ancora più spesso, è lo stesso registro vocale ad essere utilizzato in modo “improprio”, ad esempio forzando il registro del soprano drammatico al canto di coloratura, velando e scurendo il colore naturale del soprano leggero o ricorrendo ad infiniti, estesissimi portamenti. Allo stesso modo, per rimanere sul piano della vocalità, il disegno polifonico degli episodi di più evidente carattere madrigalistico viene spesso deformato e costretto ad una gestualità irrituale: gli episodi omofonici sono generalmente secchi, scanditi, ruvidi nello svolgimento della omoritmia, mentre quelli più esplicitamente contrappuntistici frammentano in modo esasperato le singole parti fino a trasformare il testo in puro, indistinto materiale fonetico. Anche le parti strumentali, per finire, subiscono un costante mascheramento: dietro l’incedere toccatistico e improvvisativo degli episodi di transizione che legano i numeri vocali si nasconde quasi sempre una improvvisa impuntatura coloristica, uno scatto aggressivo, una esplosione di furor timbrico che pro- ducono un effetto quasi ottico di deformazione, di aberrazione della forma originale. Tutti procedimenti, dunque, che dal punto di vista retorico si possono ricondurre a quella figura retorica “moderna” che Paolo Fabbri definisce camouflage, un termine introdotto negli studi sul linguaggio verso al metà del- l’Ottocento e che deriva etimologicamente dal verbo carmare, un verbo che ha la stessa radice della parola carmen e da cui deriva anche il sostantivo francese charme: il camouflage sarebbe dunque “un incanto gettato sulle cose, perché abbiano un senso diverso da quello consueto”. Solo un incanto, del resto, l’incanto illusionistico di cui è capace soltanto la poesia (il carmen...,) può consentire, nello stesso esatto istante, di baciare i detti e di ragionare i baci.
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