Texts by Lucia Ronchetti
05-2008
Nel ventre della città-cataclisma
Quando l’Ensemble Modern mi ha chiesto di realizzare un soggiorno e un reportage compositivo di una delle quattro metropoli del progetto INTO, non ho avuto nessun dubbio sulla scelta di Johannesburg, perché in questa città tristemente rinomata per criminalità, invivibilità, violenza, infezione e traffico paralizzante, vivono e lavorano persone straordinarie, idealisti politici, scrittori, artisti e musicisti engagés, che tentano di costruire le basi di una vita sociale possibile, multirazziale, democratica, libera, nel rispetto estremo di ogni forma di minoranza. Un laboratorio per il futuro, insieme conferma e sfida delle pessimistiche analisi di Zygmunt Bauman.

Johannesburg era una città già in qualche modo conosciuta per me, ma solo attraverso il reportage creativo, la finzione narrativa, l’elaborazione autobiografica di straordinari insiders, quali Terry Kurgan, Jo Racliffe, Antie Krog, Jonathan Manning, Minky Schlesinger e Ivan Vladlislavic’, con il quale ho realizzato una Strasse Opern all’Akademie Schloss Solitude di Stuttgart nel 2000 il cui landscape virtuale era appunto la sua città. Da queste e altre letture deriva l’impressione di una città cataclismatica, campo di battaglia di strenue lotte tra razze e identità, una città dalla storia brevissima ed estremamente intensa e piena di ferite, fantasmi, sparizioni, assenze e mancanze. Una città che rimane obiettivamente difficile, nonostante il decennio di democrazia gestita dall’ African National Congress del post-Mandela, una città dove la vita inizia alle 5 del mattino e finisce alle 6 del pomeriggio e le strade sono vuote, le sale da concerto chiuse, i cinema disabitati e tutti si muovono in macchine ben chiuse, evitando di fermarsi troppo ai semafori, vivendo in case barricate dietro muri e palizzate, il più delle volte ornate di fili elettrici. Molti johannesburghesi sono andati via e molti sembrano prepararsi a farlo: J.M. Coetzee, lo scrittore più celebrato, vive ora in Australia e Kevin Volans, il compositore più riconosciuto, in Irlanda. Nello stesso tempo Johannesburg è la città della speranza per miriadi di africani provenienti da tutto il continente sfuggendo alla miseria rurale per poi vivere nel “sotto mondo” della clandestinità ed il simbolo della speranza di un mondo migliore per tutti quelli che hanno voluto la convivenza pacifica tra le diverse culture, razze e linguaggi (11 solo quelli riconosciuti ufficiali) ed è quindi un luogo affascinante, sospeso tra utopia e distopia, che continua a generare la produzione di tante Città del sole, aspettative creative di un mondo migliore, in letteratura, nelle arti visive e soprattutto in musica. Una città che fa pensare ad un impossibile ma fertile dialogo tra l’ estremo idealismo filosofico di Tommaso Campanella e il concreto pessimismo sociologico di Marc Augé. Utopia e distopia che si specchiano anche nel labirinto acustico della città: un continuo assordante rumore, una indistricabile foresta di suoni diversi connessi tra di loro dal continuum del traffico e spenti solo a tratti dalle straordinarie, spettacolari e apocalittiche piogge calde del primo pomeriggio che riportano tutto ad un attimo iniziale di magico silenzio.

Per analizzare e decodificare questa complessa machina-mundi, ho registrato I rumori tipici della città, collezionando un diario sonoro del mio soggiorno, legato alla predilezione e alla memorie acustica dei johannesburghesi che ho conosciuto, generando una collezione di immagini sonore specificamente legate alla vita in Johannesburg e dei suoi abitanti, una popolazione di irrefrenabili sognatori. Alcuni di questi suoni, le tempeste di turneriana memoria per esempio, saranno oggetto di analisi frequenziali e ritmiche, generando alcune delle campiture armoniche e l’evoluzione formale del mio reportage compositivo per l’Ensemble Modern, quali fantasmi acustici, ferite della tessitura accordale che accompagneranno la voce sola registrata con frammenti da Portrait with Keys, l' ultimo libro su Johannesburg di Ivan Vladislavic’. Alcuni suoni della collezione sono considerabili “suoni d’autore”. L’oceano sintetico di Marcus Neustatter, artista concettuale, speciale blend johannesburghese di impianti di areazione, frigoriferi, generatori elettrici, traffico e clacson impazziti dei taxi ranks captati dal 30° piano di un palazzo di Braamfontein: una marea pulsante visionaria e sospesa, un sogno acustico ricorrente in una città senza riserve d’acqua naturali. Per Philip Miller, compositore, l’happening sonoro più rappresentativo della città é l’insieme di canti gospel contaminati dalle confessioni religiose sioniste, etiopi, pentecostali ed apostoliche, il mbube, eseguito nelle cerimonie domenicali all’aperto sulla Melville Koppies, una bellissima collina del zona nord disseminata di aloe, rocce vulcaniche e frammenti di quarzo. Zodwa Radebe, antropologa sociale, riproduce per me la delicata sinfonia delle molle arrugginite dei materassi di Soweto, la sua township natale, soprattutto nei periodi estivi, quando nelle baracche senza finestre la gente si gira e rigira nel sonno secondo ritmi imprevedibili ed ondate sommesse. James Webb, sound-artist ed organizzatore di eventi sonori pubblici, propone il suono di un ascensore che scende nella più profonda delle miniere nel sottosuolo di Johannesburg, trasportando con se il boato dei macchinari delle raffinerie e poi , sempre più cupo e profondo, il suono dei trapani dei minatori neri che ancora oggi sono gli unici operai di queste fabbriche sotterranee. Thabang, musicista sotho che lavora a giornata in una delle miniere che stanno raggiungendo la periferia di Johannesburg, racconta la vita della miniera, mimando con la voce i suoni infernali dei perforatori e spiegandomi, nel tipico recitar-cantando del Lesotho, di come i minatori neri nel sottosuolo si dividano nuovamente in gruppi tribali, non potendo lavorare senza cantare e lo devono fare separatamente, intonando I diversi repertori, per una trance autoindotta che possa aiutarli nell’inumano intento di scavare la profondità di questa terra, ancora cercando quell’oro che ha fatto nascere la città e prosperare la potenza della dominazione bianca. Queste registrazioni eccezionali parlano anche della spettacolare verticalità virtuale della città, più di 5 chilometri dalla torre del grattacielo più alto al fondo della mina più profonda, e spiegano in qualche modo la diffusione magmatica del rumore in questa città, il cui suolo é una leggera lamina sospesa tra sopra e sotto che rende tutti un pò fantasmi e un pò profeti. Con Thabo Matshoele, sound engenier di Soweto, ho registrato il suono dei curatori zulu del Mai Mai Market di Newtown, riconosciuti Isgula che passano la giornata a battere le diverse erbe secche in lunghi contenitori di leghe di metallo, secondo il ritmo scandito di una conversazione rituale che si ripercuote su tutto il mercato, un concerto di campane attutite di varesiana memoria. All’interno del mercato si lavorano legni, pelli, semi, piante e lattine vuote per costruire i sonagli che si usano nelle danze tradizionali zulu. Montagne di tappi di latta e di coperchi di lattine, gli Intsimbi, sono pazientemente selezionati e cuciti su cavigliere da donne silenziose e veloci che generano dalla latta, rivoli di un suono acquatico e trasparente. Memorabile è la visita al mercato di Alexandra, township del Nord, con Mpho Maponya, sound engenier del Lesotho. Gli artigiani del mercato macinano semi, battono impasti, cantano e promettono urlando in xhosa e zulu, amplificando gli speciali scricchiolii vocali delle lingue mentre una cantante di strada, intona una antichissima ninna-nanna Xhosa “Thula Thula” con monocromie discendenti dietro celatissimi cardini armonici blues. Dietro una bancarella di pomodori, un gruppo di 5 ragazzi zulu sembrano sussurrare ritualmente, omoritmie ombrate che stentano ad emergere dal suono bianco del mercato: ripassano i loro pezzi di isicathamiya, lo stile dei minatori del Natal, cantato “in punta di piedi”, articolatissimo ma delicatissimo, tutto in pianissimo. La competizione di questo stile avrà luogo la sera stessa in uno hostel di Alexandra, dormitorio della township, l’ultima spiaggia residenziale di questa città alle pendici della città dalle cui baracche non più alte di 2 metri, si vedono i grandi elegantissimi alberghi-grattacielo di Sandown, il più ricco suburb di Johannesburg. Quello si ascolta nelle townships, il venerdì e il sabato sera è lo speciale mix di generi urbani e pantribali in aperta evoluzione. Soprattutto il mbaqanga (versione urbana del kwela), stile potente e trascinante che pervade sottotraccia molte delle altre tendenze, e trova nella venerata Busi Mlongo una interprete eccezionalmente dotata di senso della sintesi, compositrice capace di scavare nelle miniere della tradizione e trovare soluzioni acrobatiche tra soul, jazz e un rock nero di nuovo progressivo. Il suo Urban Zulu è una bibbia per i musicisti zulu che arrivano dalla campagna alla metropoli in cerca di visibilità ed è il riferimento ufficiale degli Indumiso della bancarella dei pomodori. Organizzano una prova aperta per Mpho Maponya all’interno di un furgoncino svuotato sotto il sole cocente del fine estate sud-africano, un umoja di strada, sorta di musical con danze e musiche zulu. I pezzi che eseguono sono loro rielaborazioni del repertorio zulu a cappella ma il trattamento vocale delle dissonanze congeniali della lingua è aggressivo ed amplificato dal loro contatto con il contesto musicale urbano oltre che dall’ involucro di alluminio rovente che gli fa da camera acustica improvvisata e sicuramente dalla rabbia, per una vita da profughi in eterna attesa di soluzione. Le risorse di questa musica sembrano essere infinite, le tecniche di emissione vocale disegnano un ampio spettro di variazioni tra sussurrato, parlato, declamato, cantato interno ed esplosione di effetti vocali esterni all’interpetazione acustica della parola. L’elaborazione e la conservazione orale nel caso della musica zulu ha avuto un percorso ispirato alla complessità e da sempre riservato ai migliori talenti musicali delle diverse tribù e il risultato è una musica cangiante, caleidoscopica, acrobatica, non lontana dalle vocalizzazioni omoritmiche monocromatiche di Aperghis, ma interrotta virtuosisticamente da fischi e trilli esplosivi, colpi di lingua coordinati con respirazioni ritmate che ricordano le elaborazioni post-futuriste delle Aventures ligetiane. Le configurazioni armoniche passano da clusters monocromatici alle sequenze tonali penetrate nella tradizione zulu dal repertorio religioso corale europeo con una coerenza e misura che stupisce in un gruppo così giovane ed emergente. L’intonazione è perfetta e slitta con perfetto controllo dal temperamento tonale alle particolari configurazioni frequenziali necessarie alla realizzazione di effetti vocali strianti ed esplosivi, mormorii e gorgoglii tipici del raffinatissimo madrigalismo zulu.

Ma, a causa della violenza e della paura, la vita musicale di Johannesburg è soprattutto confinata negli interni, spesso privati, dove ognuno cerca di rappresentare la società di cui paradossalmente fa parte da outsider. E’ stata un’esperienza straordinaria scoprire la Johannesburg di William Kentridge, assistendo alle prove della riedizione del suo Woyzeck con le marionette di Adrian Kohler nella sua casa teatro-studio. La sua compagnia di attori, marionettai, danzatori e musicisti bianchi e neri é uno straordinario e complesso collettivo che nella rappresentazione di un Woyzeck operaio della Johannesburg degli anni ’50, rende la sua mente malata ed estraniata del personaggio di Buchner una possibilità estremamente realistica anche nel contesto attuale. La complessità della realizzazione, che “accumula” voci registrate e live, musica di strada sud-africana, il maskanda da sempre ispirato al virtuoso della chitarra acustica Shyani Ngcobo, il video in bianco e nero, iper-minimalista e quasi desertico, con una velocità di scorrimento connessa con lo scorrere delle apocalittiche decisioni di Woyzeck, le marionette in legno slavato manipolate con esasperazione surrealistica e gli attori che si materializzano dietro e davanti il piccolo spazio scenico, generano uno straordinario quanto drammatico feedback del mondo che é giusto all’esterno del muro di cinta. Una Johannesburg altra, tutta musicale, si materializza quotidianamente nel mitico studio della Digital Cupboard dove molti artisti neri emergenti provano, registrano e producono le loro nuove alchimie musicali. Zamo Mbutto, performer originario di Durban, canta in turni diversi adattandosi alla incredibile varietà di stili e tendenze musicali, disegnando all’impronta le diverse voci di accompagnamento di un nuovo arrangiamento per Miriam Makeba, partecipando alla sessione di registrazione degli Amaryoni, un ensemble zulu a cappella, ed intervenendo nelle sessioni finali di una colonna sonora di un film francese sul Sudafrica. La voce di Zamo Mbutto e il suo talento non conoscono limiti, la sua risposta al contesto musicale proposto é sempre intensa, sensibile, analitica, una voce che passa da impostazioni neo-liriche a raffinatissime e rarefatte attitudini cameristiche, cambiando timbro e intenzione, sovrapponendosi naturalmente a contesti già complessi e ampiamente stratificati senza mai perdere la sua connotazione di fondo, la densità strutturale e la perfetta intonazione. Una voce che é sensibile e concreta espressione della incredibile stratificazione di memorie e culture con cui la città si misura continuamente senza poter trovare una chiara ed univoca risposta ma infondendo una incredibile profondità all’espressione musicale, anche la più semplice e privata.