Interviews
2006
Interview with Isabella Maria (IT)
Una commissione prestigiosa da parte della principale
agenzia culturale della regione Nord-Reno Westfalia è
l’occasione per parlare, questo mese, con Lucia Ronchetti,
compositrice italiana, anzi europea, che tra i talenti nostri connazionali
all’estero occupa un posto tutto speciale. Affermatasi
giovanissima, è autrice della scuderia RaiTrade e ha ricevuto
commissioni dall’Orchestra della Rai, dal Festival Romaeuropa,
dal Teatro Sociale di Rovigo, dalla Gog di Genova, dall’ORT, dal
Teatro delle Muse di Ancona, da Musica/Realtà di Milano, ma
anche dall’Ircam, da Radio France, dalla Biennale di Monaco;
sue opere sono state eseguite, tra l’altro, alla Fenice e alla Scala.
La parte più sostanziosa della sua carriera è internazionale fin
dagli anni di formazione: borse di studio, diplomi e dottorati a
Parigi (D.E.A. in estetica e dottorato in musicologia alla Sorbona),
residenze a Stoccarda, Peterbourough e alla Columbia
University di New York, e infine dal 2005 il prestigioso titolo di
Compositore in residenza del Deutscher Akademischer Austauschdienst
(DAAD), a Berlino, che prima di lei avevano ottenuto
compositori quali Berio, Clementi, Bussotti, Dallapiccola, Donatoni,
Manzoni e Nono. «Fin dalla primissima infanzia ho avuto la
possibilità di prendere lezioni da un vicino di casa, un musicista che
in seguito era diventato orologiaio. In questa casa piena di orologi rotti
ho imparato un po’ di armonia, e a suonare diversi strumenti faticenti,
in modo molto libero, giocoso. Ho deciso di diventare compositore a 16
anni, ascoltando su Radio3 Aura di Maderna: è stato l’inizio di un
ciclo che si è chiuso otto anni più tardi con una tesi di laurea analitica
proprio su Aura – quindi Maderna, che non ho mai conosciuto, lo
considero uno dei miei maestri ufficiali, accanto a Mauro Bortolotti e
a tutti gli altri. Il passaggio dalla completa libertà di apprendimento a
un ambiente accademico, strutturato, è stato interessante, e anche duro.
In Conservatorio ci sono molti esami storici e stilistici da affrontare,
che non permettono grande libertà di espressione. Per riconquistarla,
questa libertà che avevo agli inizi, ho fatto fatica».

Quali tendenze compositive prevalgono oggi in Europa?

«Ci sono due grandi rami, l’uno volto a ripristinare un dialogo
con il pubblico, anche rifacendosi ad alcune esprienze del pop e del
rock, e l’altro che vuole invece confrontarsi con un’idea di complessità
del linguaggio musicale, e tende a comunicare con un pubblico più
ristretto. Questo può avvenire tramite la scrittura tradizionale, che
spesso prende le forme di un’iperscrittura dove ogni minimo dettaglio
viene esplicitato. Oppure per mezzo di performance improvvisative
dal vivo, con largo uso di sperimentazioni elettroniche. I percorsi sono
diversi, ma finiscono per convergere su risultati assimilabili: la ricerca
elettronica, che in Italia è vista soprattutto come una filiazione del free
jazz, nel resto d’Europa appartiene a pieno diritto all’ambito colto. In
ogni caso, vivere a Berlino è straordinario, perché ci si trova nel mezzo
di un ambiente vivo e pulsante, che ospita un larghissimo spettro di
intenzioni compositive, tutte davvero stimolanti, anche quando non
danno origine a opere memorabili o perfettamente compiute».

Tra 40 progetti internazionali, la commissione composta
da Heiner Goebbels, Paul Esterhazy e Amélie Niermeyer
ha scelto il suo Die Schiffbrüchigen (I naufraghi, ma il titolo è
provvisorio), su libretto di Steffi Hensel, regia di Michael v.
zur Mühlen e scene di Sebastian Hannak. Di che genere di
premio si tratta, e come è nata l’idea di partecipare?

«È un premio di produzione che prevede lo stanziamento di una
grossa cifra, 80.000 euro, per finanziare e mettere in repertorio un
nuovo progetto di teatro sperimentale (non un’opera tradizionale,
quindi). Avevo già collaborato con il librettista e lo scenografo per Last
Desire, una Salome senza Salome che aveva ricevuto due nominations
dal Kritikerumfrage der Opernwelt nel 2005. Per questo progetto
siamo partiti da una mia idea sulla globalizzazione, vista dal punto di
vista del dramma della deterritorializzazione, l’immane ingiustizia
per cui noi europei possiamo andare dappertutto, mentre gli “altri” non
hanno accesso ai nostri territori. È un’opera in qualche modo politica,
non facile da proporre in una nazione tutto sommato chiusa come la
Germania. Musicalmente, il dato saliente è che non ci sono voci soliste:
in scena c’è un gruppo di performers, cantanti (non lirici) e attori, un
gruppo di “naufraghi” virtuali, o forse di persone ferme alla frontiera,
che non possono passare. Faranno musica con le cloro voci e i loro corpi,
le scarpe, i bottoni, i denti, esplosioni solistiche con percussioni. È
sostanzialmente un’opera per ensermble di ottoni e coro».